Le cose che ho dimenticato

La formula per il calcolo di una circonferenza, quel numero, il tre e quattordici, per cosa va moltiplicato? Raggio o diametro? L’indirizzo di quel bar dove servivano, da una bottiglia che sembrava aver attraversato due o tre guerre mondiali, il famigerato Coca Buton. Liquore ricavato da foglie di coca, come recitava l’etichetta, rigorosamente decocainizzate. Ma noi, è naturale, non ci credevamo. Preferivamo sognare uno sballo a basso costo. E soprattutto perfettamente legale. La ricetta per preparare certi spaghetti che tutti, ma proprio tutti, avevano giudicato troppo buoni. Cucinati la prima volta con ingredienti di fortuna recuperati nei piani bassi del frigorifero, non sono più riuscito in seguito a riprodurli. Il nome del cane che avevo quando ero molto piccolo. Non sono nemmeno sicuro che fosse nostro, a dir la verità. Girava nel cortile della casa che avevamo in affitto, scavando buche dappertutto. Gli davamo da mangiare, mi faceva compagnia. Il colore della Graziella con le ruote piccolissime, regalo di Natale. Quanti giri sui sentieri del parco giochi, quanti voli in quelle buche. La marca delle prime sigarette che ho fumato, sigarette che rubavo a mio padre, sfilandole con abilità dal pacchetto che teneva nella tasca della giacca. Per poi, sempre in quel benedetto parco, darsi delle arie da grande. Naturalmente non ci riuscivo tanto bene, tossivo da matti e quando tornavo a casa con gli occhi lucidi mia madre pensava che avessi partecipato a qualche rissa tra ragazzini. Dove nascondevo le figurine dei calciatori, mai finito un album, vinte in interminabili duelli. Si giocava all’italiana, vinceva la figurina dell’avvversario chi riusciva a lanciare la sua più vicino al muro, o all’americana. Dove, invece, vinceva tutte le figurine lanciate e rimaste a terra chi riusciva per primo a coprirne una dell’avversario. Più sicuro il primo modo, si faceva sempre in tempo a ritirarsi dopo le prime perdite, decisamente da cardiopalma il secondo. Dove si poteva vincere o perdere il tesoro di un intera stagione. E ho dimenticato, naturalmente anche quando ho dimenticato tutto questo. Succede proprio così. Ci pensi e non te lo ricordi più.

Per paura che non sia Shangai

Vai all’estero. Ti porti dietro qualche chilogrammo di tecnologia, il laptop, lo smartphone, il tablet e tanta altra roba. Ma, una volta arrivato, ti accorgi che le prese di corrente sono completamente diverse. Come far funzionare tutto l’armamentario che ha in valigia? Inutile affannarsi per negozi e centri commerciali. Certo, pezzi di plastica da inserire in prese straniere, per far funzionare computer e frullatori, ne hanno. E tanti. Il problema è che sono pensati, appunto, per i loro viaggi all’estero. E quindi sono esattamente l’opposto di quello ti serve. L’unica soluzione, meno male che esistono, sono i Bazar cinesi. Che ricevono tonnellate di merce, distribuita, apparentemente senza nessun criterio, in tutta Europa, anzi, in tutto il mondo. Tutti i Bazar cinesi hanno tutto. E solo li’ trovi il pezzo di plastica con i buchi e gli spinotti al posto giusto. Costa una sciocchezza e si romperà, con ammirevole tempismo, alla fine della vacanza. Poco male, ha fatto comunque il suo servizio, penserai, sollevato. Ma l’anno prossimo ti ritroverai ancora con lo stesso problema. Le prese, maledizione! In realtà in questi negozi la merce non arriva, come abbiamo già detto, senza un criterio. Così può parere a noi occidentali. Pratici, razionali e nazionalistici quel tanto che basta. Davvero convinti che un regola baffi possa interessare solo un metalmeccanico turco, che una pinza per cioccolata sia desiderata solo dai cittadini elvetici o che delle tazze da the con l’immagine della Regina Elisabetta possano trovare acquirenti solo oltremanica. E’ normale, nella UE siamo un duecento milioni e qualcosina, divisi in decine di stati e staterelli, parliamo lingue diverse. Anche più d’una, in qualche paese, giusto per aumentare la confusione. I cinesi, no. Sono una miliardata, anzi quasi due. E tutti più o meno parlano il mandarino. Si sono sorbiti mezzo secolo di regime comunista e piani quinquennali, con tanto di pianificazione di fabbisogni, consumi, produzione. Ovvio che da loro il prodotto, l’oggetto, il bisogno, sia standardizzato. L’industria tessile doveva aumentare la sua produzione del 30%? Bene, facciamo tre miliardi di costumi da bagno, due a testa, tanto erano già in previsione. Da distribuire in tutti i negozi della Cina, beninteso! Anche in Xinjiang? Si, anche in Xinjiang. Ma veramente lì il mare non c’è, è montagna e fa un freddo cane! D’accordo, ma i giubbotti di pelliccia sono previsti solo nel prossimo piano quinquennale, adesso comprano questi, poi si vedrà. Capito come funzionava, come ha funzionato per cinquant’anni? D’altra parte non puoi aver la pretesa di accontentare tutti sempre e comunque, quando hai a che fare con un quarto della popolazione mondiale, siamo seri. Si sono dovuti abituare così, ecco. E se i Bazar Cinesi, in Cina, hanno tutto, compresi i costumi da bagno in Mongolia e le racchette da neve a Shangai, figurati se quelli aperti da noi, in Europa, si comportano diversamente. Siamo quattro gatti, vogliamo pure fare quelli che si vogliono distinguere? No, dobbiamo comprendere che quel tempo è finito, basta con le differenze. Tutti uguali, tutti uguali, con il tutto a poco prezzo. E’ così bello, poi, poter pensare che non resterai mai deluso. Che la tua richiesta, per quanto assurda, verrà soddisfatta, basta cercare sullo scaffale poco più in là. Quindi, insieme al tuo adattatore coi buchi giusti, troverai, nel tuo Bazar di fiducia, anche il regola baffi, le tazze col principino, le mollette a forma di lucertola, i calendari col Capodanno al posto sbagliato. E naturalmente, un discreto numero di costumi da bagno rimasti invenduti.

Ho visto cose…

Voi non vivete qui, non lo sapete. Voi abitate altrove, lo so, non avete idea. Dell’infinita pazienza che occorre per questa città. Che in poche fermate, di autobus o metropolitana che sia, ti porta al Cairo oppure a Shangai. Con donne velate e draghi di cartapesta. Voi non vi mettete in fila, ogni giorno, per qualsiasi cosa. Anche per un caffè. Non dovete studiare mappe, orari, coincidenze. Non dovete parlare tutte le lingue del mondo, senza comprenderne nemmeno una. Per rispondere a qualcuno che non sa. Dove si trova quella via, il bar, la questura. Le valigie con le rotelle trascinate ovunque. C’è sempre un esodo, qui. Anche senza Mar Rosso, anche senza una meta. Timbra il biglietto, vai. E i negozietti dove puoi trovare tutto, anche quello che non ti serve. Costa poco, compralo ugualmente. I cinema, i teatri, i concerti. Tanti manifesti da leggere ogni giorno, non puoi indugiare. Stasera o niente. Voi non sapete, di chi per pochi spiccioli, canta, suona, mette in mostra sfortuna e dolori. Tanti, troppi. E i posti dove mangi di corsa. Si, puoi mangiare il mondo, basta che ti sbrighi. Che c’è altra gente, ancora, che aspetta. Voi non conoscete gli alberi e le aiuole avvelenate dal cemento. Le panchine vuote, l’odore degli scappamenti. La sera che ti sorprende schiacciato, come tutti gli altri, su un treno. Dieci minuti e sei a casa, ma non riesci a respirare. Sei stanco, hai fatto di tutto, hai visto tutto. E domani si ricomincia.

Vent’anni dopo (Ciao, tenente)

E’ proprio qui, dove la valle si stringe di colpo. Il fiume, la ferrovia, la strada. E quel prato, eccolo, dove ci eravamo accampati, mentre stavamo scappando verso nord. Altro che ritirata strategica, come la chiamava il Comando Generale, era una fuga. La strada, Il paese, guarda com’è diventato grande. Allora c’erano solo la chiesa, la scuola e un pugno di case. E quella trattoria, dove lavorava lei. Dove andavamo tutti i giorni, noi ufficiali, per pranzo e cena. Dopo la guerra, appena ho potuto, ci sono ritornato. Il bancone era sempre lo stesso, le bottiglie di vino, i bicchieri in fila. Ma lei non c’era più, era andata via. Nessuno, proprio nessuno, ha saputo dirmi dove. Sembrava che tutti si vergognassero un poco, quando chiedevo di Maria. Come se ci fosse qualcosa che non potevano raccontare. A me. Come se fossi ancora il tenente, il tedesco, il nemico. Il treno è già scivolato via, la valle si riapre. Sono ancora qui, in Italia, Verona, Milano, Venezia, Firenze, Roma. Non che non le abbia già viste, che non ci sia mai stato. Ma allora non avevo certo il tempo per fermarmi davanti a una chiesa, per ammirare un monumento. Per visitare un museo, per cercare dei libri. Non ero lì per fare il turista. Ma per un altro motivo. Il più semplice di tutti, tornare vivo a casa.

Siamo in ritardo, i tavoli non sono ancora pronti. Le tovaglie, le posate, forza! In cucina come sta andando, invece? Dai che stasera viene anche la compagnia che recita al teatro qui vicino. Sono almeno in venti, non voglio fare brutta figura. Guarda che ti ho sentito, sai? Non sono innamorata di quello là, figurati, un attore! Dai ragazzi, deve funzionare tutto alla perfezione. Questo è il mio ristorante, lo sapete. Quando siamo arrivate qui, in questa città, io e mia madre, era appena finita la guerra. Il padrone, il Luigi, aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse e ci ha prese subito. La mamma in cucina, io a servire ai tavoli. Proprio come… Si, come prima. Non ce ne siamo più andate, e quando il Luigi ha deciso di mettersi a riposo, ci ha chiesto se lo volevamo noi, questo posto. Abbiamo detto di sì. I primi tempi è stata davvero dura, avevamo fatto tanti debiti, ma ci siamo riuscite. Io e la mamma ci siamo riuscite. Lei se n’è andata cinque anni fa, era ancora giovane, proprio come papà. Ma è riuscita a vedere quello che siamo riuscite a fare. Quindi, adesso, datevi una mossa, che fra mezz’ora apriamo!

La stazione è stata ricostruita, allora era tutta segnata dalle bombe. Gli americani, almeno una volta al giorno, cercavano di impedirci di prendere i treni che ci portavano a casa. Molti miei compagni sono morti qui, sorpresi da un allarme aereo, quando ormai pensavano di avercela fatta. La mia fortuna è stata quella di comandare quella colonna. Che a casa ci andava a piedi. L’albergo è qui vicino, meno male, il viaggio è stato davvero lungo, sono stanco. E ho fame. Chiederò un consiglio al portiere, conoscerà certamente qualche posto dove si mangia bene. Dopo due passi per il centro. Per il resto ci sarà domani

Buonasera! Buonasera! Accomodatevi pure, vi porto subito il menù. Il vostro tavolo è quello là. Si, lo so, siete tanti, non vi preoccupate, c’è posto per tutti. Il vino è quello buono, l’ho scelto io, vi ho mai deluso? Avanti, ditemi pure quello che volete mangiare. Lei, invece, è solo? Ha prenotato? Non importa, un posto glielo troviamo ugualmente, stia tranquillo. Ecco, va bene qui? Un attimo e poi torno da lei. Dio santo, è lui. Lui. No, calmati, non è possibile, ti sbagli. Non sai nemmeno se si è salvato, se è tornato a casa, se è ancora vivo. Come fa a essere qui Forse è solo uno che gli assomiglia. Anzi, è uno che gli assomiglia. Non può essere altrimenti. Calmati, calmati, calmati.

No, non può essere lei, non è possibile, ti sbagli. Lei non c’è più, te lo ricordi? Quando sei tornato a cercarla, cosa ti hanno detto? Che era sparita, in tutta quella confusione. E adesso te la ritrovi al tuo tavolo, come se tutti questi anni… Ci siamo visti qui, solo ieri. Eravamo solo vestiti diversamente. Un giorno. E’ passato solo un giorno. No, queste cose non succedono. O succedono solo nei libri. Solo lì, non nella realtà, non adesso. Non a me, non a noi. No.

Lei non è di qui, vero? Ah tedesco… (è lui, Dio, è lui). Parla bene l’italiano, però. Ah, è un insegnante, ci avrei scommesso (si, si, perché non dice nulla, perché non mi riconosce?) Allora non è la prima volta che viene in Italia, ho capito. Cosa vuole mangiare, conosce già qualche piatto tipico? Cosa le porto allora?

Beh, mi affido a lei, sono convinto che saprà consigliarmi bene (no, è lei, è davvero lei, cosa faccio, cosa le dico, adesso?). Sì, certo, un bel piatto di pasta, per cominciare, mi piace tanto (perché non dice nulla, non mi riconosce? O forse ha un marito, dei figli, non era ieri, sono passati 15 anni). Dopo vedremo, però credo che vorrò provare l’arrosto, il portiere dell’albergo me l’ha raccomandato tanto. Da bere? Mi porti un buon vino rosso, Maria (oh no, no!)

Come fai a sapere che mi chiamo Maria, signor tenente? Non lo so, mi sono sbagliato, io però conoscevo una Maria. Tu, piuttosto, perché mi chiami tenente? Perché io, invece, conoscevo un tenente. Davvero? Quando, dove? Dove… Dove tu hai conosciuto Maria, credo. Quando? Non lo so, forse quindici anni fa, forse ieri. Già, forse ieri. Ma oggi non è ieri. Lo dici tu, finisci il piatto e portami a ballare. Fino a domani.